"Siamo tutti uno" - Introduzione

Il libro di Survival Siamo tutti uno © Survival

 

L’introduzione al libro “Siamo tutti uno” del Direttore Generale di Survival International, Stephen Corry

 

Quel giorno rientravo dall’Amazzonia a Bogotà su un vecchio aereo da carico che trasportava anche un gruppetto di giovani indiani. Era la prima volta che uscivano dalla foresta ma non erano turbati dal volo, forse perché non percepivano nulla di preoccupante in quella corda che, stretta attorno alle maniglie, doveva tenere chiusi i portelloni di quel decrepito DC-3 militare.

Di lì a poco avrebbero camminato per la prima volta sulle strade di una città. Usciti dall’aeroporto, la loro prima reazione fu quella di fermarsi a salutare tutti i passanti, stringendo loro le mani e presentandosi per nome, così come avrebbero fatto a casa.

Per loro sarebbe stato impensabile trascurare queste regole basilari della buona educazione. Ma, travolti da una folla che passava frettolosamente oltre, imbacuccata contro il freddo andino, ci misero solo un minuto a rendersi conto che non sarebbero mai riusciti a salutare tutti.

Sciolsero rapidamente il loro smarrimento in una risata autoironica, ma io non potrò mai dimenticare il calore e l’umanità delle loro intenzioni.

Nel mondo ci sono 370 milioni di indigeni, di cui 150 milioni sono tribali. I loro stili di vita si sono sviluppati nel corso di migliaia di anni, dalla foresta pluviale amazzonica all’Artico siberiano. Per lo più autosufficienti e distinti dalle società dominanti dei loro paesi per lingua, credenze e atteggiamento verso la vita, includono le minoranze più vulnerabili del mondo e rischiano di perdere i loro mezzi di sussistenza e tutto ciò che dà un senso alle loro vite.

Nonostante le enormi differenze culturali e geografiche, i popoli indigeni condividono non solo gli stessi profondi legami pratici, storici e spirituali con le terre ancestrali ma anche le persecuzioni inflitte dalle società dominanti. i risultati conseguiti nel XXI secolo nel campo della tecnologia e il benessere materiale riservato a pochi – indicatori del cosiddetto “progresso” – contrastano con la barbara persecuzione dei popoli tribali iniziata con la “scoperta” del nuovo mondo e da allora mai cessata. Grazie alla superiorità numerica e alla potenza del loro apparato bellico, queste forze si sono appropriate delle terre indigene per colonizzarle, disboscarle, aprirvi strade, sfruttarne le risorse petrolifere e minerarie e perseguire qualsivoglia altra brama di ricchezza.

Hanno anche tentato di imporre i loro stili di vita alieni a società che prosperavano da millenni. Così facendo, spesso nel falso nome del “progresso” culturale e materiale, hanno distrutto tanti popoli diversi, depositari di sofisticate visioni del mondo.

“Se mutilare, derubare e frustrare sono parte integrante del processo di ‘civilizzazione’, allora il progresso cos’è?” chiese un giorno il capo indiano Luther orso in Piedi. Si potrebbe forse rispondere che “progresso” non è sinonimo di etica. L’idea che esistano società progredite e altre no è tanto diffusa e persuasiva da indurre molti a considerare inferiori coloro che vivono in modo diverso, esponendoli così ad abominevoli violazioni dei loro diritti umani.

La verità è che spesso il progresso uccide.

Survival International è stata fondata nel 1969 dopo la pubblicazione di un articolo di Norman Lewis sul Sunday Times, in cui venivano denunciate le atrocità inflitte agli indiani brasiliani. Da allora, Survival lavora per i diritti dei popoli tribali alle loro terre e a una vita liberamente scelta. A distanza di quarant’anni, è indubbio che la situazione, per quanto molto lentamente, stia volgendo a favore dei popoli indigeni. All’epoca, i massacri e le epidemie erano talmente diffusi da far pensare che in Brasile nessun Indiano sarebbe sopravvissuto alla fine del secolo (nel Novecento si è estinta mediamente una tribù all’anno).

Fortunatamente, la questione indigena si è fatta spazio nell’arena politica e culturale, e oggi sono rimasti in pochi a pensare che la prospettiva migliore sia quella di assimilare questi popoli alle società dominanti. tuttavia, è presto per cantar vittoria.

Le barriere razziste non sono state definitivamente abbattute, e molti popoli tribali sono ancora a rischio di estinzione. Due secoli fa la schiavitù trovò sostegno in una cultura razzista simile ma, alla fine, grazie alle pressioni dell’opinione pubblica, venne abolita. Così come oggi è inconcepibile pensare che la tratta degli schiavi possa essere ripristinata, sono sicuro che un giorno il potere dell’opinione pubblica avrà la meglio anche per i popoli indigeni.

Survival ha cercato a lungo di dare a questi popoli una voce, un palcoscenico che altrimenti non avrebbero ottenuto. Siamo tutti uno è questo palcoscenico. Con le loro stesse parole, il libro ritrae le vite, le terre natali, le culture e i problemi dei popoli tribali di ogni continente ed è allo stesso tempo un omaggio e una “chiamata collettiva alle armi”. In un atto straordinario di solidarietà, le voci di questi popoli sono amplificate dal contributo suggestivo e stimolante di sostenitori, scrittori e fotografi che, da tutto il mondo, ci supplicano di ascoltare la saggezza e il monito dei popoli tribali e di affiancarli nella lotta per i loro diritti.

La forma collettiva di Siamo tutti uno riflette anche una verità che i popoli indigeni comprendono forse meglio di molti altri: che il senso della vita risiede nell’appartenenza; agli altri, all’ambiente immediatamente circostante, al mondo nel senso più ampio.

Nella nostra irrefrenabile corsa verso il progresso materiale, ci siamo forse alienati dai bisogni umani più profondi, che sicuramente risiedono nelle relazioni con le altre persone e con la terra. Il giorno in cui quegli Indiani colombiani salutarono gli estranei in una strada di Bogotà ho potuto fugacemente cogliere la forza di questo innato senso di appartenenza.

I popoli indigeni sono il faro che illumina l’importanza di queste relazioni. Se li distruggeremo, soffocheremo queste luci e, così facendo, renderemo il nostro futuro meno umano. Credo che la loro sopravvivenza sia una delle più grandi questioni umanitarie del nostro tempo.

Hanno il diritto di essere qui, e io non sono il solo a credere che sopravviveranno.

Stephen Corry, Direttore Generale di Survival International

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