Botswana: tirannia oltre la tomba

© Survival

Mogetse Kaboikanyo era un uomo Kgalagadi e viveva insieme ai Boscimani Gana e Gwi nel parco del Kalahari.
Nel Febbraio 2002 fu deportato in un campo lontano dalla riserva. Morì 4 mesi più tardi. Aveva cinquant’anni.
I suoi amici sostengono che non fosse malato e che il suo cuore abbia semplicemente cessato di battere.
Dopo anni di battaglie per rimanere sulla sua terra, Mogetse è stato seppellito
nella desolazione di un campo di reinsediamento, lontano dalle tombe dei suoi antenati.

Survival lo ha incontrato poco prima della deportazione. Questa è la sua testimonianza
e noi faremo in modo che resti a memoria perenne della lotta dei Boscimani per la giustizia.

“Mogetse 

“Io sono nato qui, e vivo in questa terra da moltissimo tempo. A crearci è stato Gugama, il creatore, in un tempo tanto lontano che io non posso sapere quando avvenne. Anche gli animali sono stati creati da Dio, per noi.

Questo è il nostro posto, la nostra casa, e qui tutto ci da’ vita. Ma adesso accade questa cosa del trasferimento… io non conosco tutta la verità al riguardo. Loro arrivano e dicono che devo trasferirmi, che questo luogo è riservato agli animali. Ma perché io devo andarmene se gli animali possono restare?

Sono nato in questa terra, insieme all’antilope. E dobbiamo restare insieme. La mia forza è la forza degli animali che un tempo mio padre cacciava e mia madre cucinava. Gli animali mi hanno dato tutto quello che vedi. Sono nato con loro e devo stare con loro. Questo è mio diritto di nascita: qui dove giace il corpo di mio padre, nella sabbia. Chi sono costoro che vogliono negarmi la vita che Dio mi ha dato?

Perché il governo pensa di essere più importante delle persone? Al governo interessa solo prendersi ciò che noi abbiamo di buono. Il governo è come un povero invidioso dell’uomo ricco, e vuole rubargli quello che ha. Viviamo nel terrore di essere cacciati dalla nostra terra. Non avremo più pace. Lo spirito di mio padre mi aveva avvertito che sarebbe successo.

Si sono già portati via i miei parenti. Hanno portato via anche mio fratello e io sono rimasto qui solo. Ma non ho intenzione di andarmene. Se mi vogliono uccidere, perché non lo fanno e basta? So che potrebbero uccidermi per la mia terra. Quando arrivano, io dico loro: “non voglio che veniate qui, ma se dovete, allora lasciate le pistole. Se venite con le armi, pronti per la guerra, dovrete uccidermi perché io non farò quello che volete”.

Ora sono contento perché Survival sta registrando le mie parole e penso che le diffonderà e così tanta gente conoscerà la mia storia. Il governo del Botswana mi perseguita. Ci caccia dal nostro posto, da ciò che è nostro per diritto di nascita. Credo che Dio non lo possa accettare: Gugama ha creato tutto ciò che c’è qui perché noi lo possiamo usare per vivere. I funzionari tiranneggiano e trasferiscono la gente senza nemmeno chiederglielo. Arrivano e ci dicono: “tirate giù le vostre case: le dobbiamo caricare sui camion, con voi”.

Quando vennero alla comunità di Gope, c’era una donna anziana molto, molto malata. La misero sul camion ugualmente, e così lei morì lì, lungo la strada verso il campo di trasferimento. Morì anche un’altra donna ma i funzionari non hanno avuto rispetto nemmeno delle nostre richieste di darle sepoltura.

Ci trattano così perché siamo il popolo dei Boscimani. Ma questo non è il modo di comportarsi con nessuno. Si deve chiedere alle persone la loro opinione, aspettare e ascoltare. I funzionari che sono venuti qui non hanno nemmeno cercato di rispettarmi. Quando vengono devo spiegare loro che sono un essere umano, e allora loro mi squadrano, su e giù!

Il Botswana si considera un paese democratico. Ma qui non è così. Ci opprimono fino a farci morire, e presto non ci sarà più nessun Boscimane. Sembra che ci sia una grande distanza fra me e il governo; quando andammo per cercare di incontrare un ministro, lui non ci riconobbe neppure. Fu molto maleducato.

Per loro siamo come briciole di spazzatura che volano via quando si alza il vento, o come minuscoli insetti che corrono sulla sabbia. Ci hanno spazzato via dalla nostra terra e ci hanno gettato su un mucchio di rifiuti, lontano dai nostri animali, dalle nostre piante e dagli spiriti dei nostri antenati.

Questo è quello che si fa con l’immondizia, non con gli esseri umani. Un giorno arrivarono dei funzionari e ci dissero che qualcuno di noi aveva cacciato un’antilope. Così, uccisero uno di noi, e ne castrarono un altro. Non si fanno queste cose agli esseri umani.

Dicono che non possiamo cacciare, ma io ho moglie e figli da sfamare. Sono abituato a dar loro la carne, ma ora ho solo radici e frutta, e la vita è sempre più dura.

Il governo dice di volere il nostro sviluppo. Lasciate che ci aiuti con l’acqua, ma poi, che ci lasci vivere nel nostro posto. Sviluppo ci può essere solo sulla propria terra. Noi possiamo badare a noi stessi, possiamo provvedere alle nostre necessità. Il nostro futuro è nei nostri figli. Il nostro futuro affonda le sue radici nella caccia e nei frutti che crescono qui. Quando cacciamo, noi danziamo. E quando piove, siamo pieni di gioia.

I NOSTRI FIGLI DEVONO POTER CONTINUARE A VIVERE NELLE TERRE DEI LORO ANTENATI."

Secondo le stime ONU, i popoli indigeni oggi contano 476 milioni di persone in 90 nazioni diverse Tra loro, circa 150 milioni vivono in società tribali. Scopri di più su questi popoli e sulle loro lotte: iscriviti alla nostra newsletter per ricevere aggiornamenti periodici.

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