All'ombra di Kaziranga - Uccidere nel nome della protezione della natura

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Il racconto di Fiore Longo, campaigner di Survival International, dal Parco Nazionale di Kaziranga in India

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La donna parlava piano, sussurrando quasi, e mi guardava negli occhi. A un certo punto si è interrotta. Non capivo una parola, eppure mi sono emozionata. E ho sentito anch’io, forse per la prima volta dall’inizio del mio viaggio in India, la paura.
Il mio traduttore mi informa: “non ce la fa ad andare avanti”. “Ma di cosa sta parlando?” chiedo io. “Ti spiego dopo, andiamocene”, risponde lui.

Quella sera capii tante cose. Capii perché a Kaziranga le interviste si fanno sempre dentro casa, e sempre di notte. Capii perché la gente continuava a guardarsi attorno mentre io ponevo loro domande innocue sulla vita quotidiana nei villaggi, e perché il mio traduttore non volle consegnarmi la traduzione delle interviste fino al giorno della partenza. Capii anche perché certe cose non dovevano essere chieste e le ragioni dei silenzi e degli sguardi; capì perché da quelle parti “bracconaggio” è una brutta parola, che può costarti la vita…

La donna si chiama Horumai Saonra. Ha due figli e un suocero malato a carico. È bellissima nel suo sguardo fiero e sofferto, lo stesso sguardo di molti altri membri delle tea tribes, alcuni dei molti popoli tribali dell’India centrale portati secoli fa nello stato di Assam per coltivare il tè di Sua Maestà, la regina d’Inghilterra. Il marito di Horumai, Dipen Saonra, è stato ucciso tre anni fa.

L’ultima volta che fu visto stava andando a lavorare per il Dipartimento delle Foreste. “L’avevano chiamato al telefono per andare a lavorare”, mi spiega suo zio.“Era un guardaparco l’uomo che lo chiamò.” Tre giorni dopo la scomparsa, la famiglia andò alla polizia, e il guardaparco fu arrestato. Fu proprio lui a indicare
il pozzo dove avevano gettato l’uomo, e quando finalmente sono riusciti a ritrovare il corpo “il fetore era insopportabile”. La famiglia non è ancora riuscita a ottenere il certificato di morte e il risarcimento che il Dipartimento aveva promesso. Un funzionario pare abbia minacciato la famiglia: se non ritireranno la denuncia, non riceveranno niente!

Fisso le traduzioni appuntate sulla carta dal mio interprete. Le rileggo più volte, incredula. I racconti di questo tipo si susseguono da un villaggio all’altro e dietro la favola conservazionista del Parco di Kaziranga si delinea sempre meglio un inquietante lato oscuro. Nel nome della lotta al bracconaggio, molti tribali innocenti sono sottoposti a torture, esecuzioni extragiudiziali, abusi e detenzioni illegali. I locali rispondono al mio sgomento con la semplicità di chi si è abituato alla banalità del male: “Incidenti di questo tipo sono all’ordine del giorno qui da noi”. Loro usano la parola “incidenti”, io li definirei crimini.

Cosa succede a Kaziranga?
“Molti ragazzi stanno andando via per paura di essere torturati. Ecco perché lei non vede nessun giovane qui nel villaggio”, mi spiega arrabbiata una donna Mising. “Li accusano di bracconaggio e li portano via.”

Kaziranga era la terra ancestrale dei Mising e dei Karbi già prima di diventare un Parco Nazionale nel 1905. Per fare posto all’area protetta voluta dai colonizzatori inglesi, questi popoli furono sfrattati dall’area pur avendo vissuto per generazioni in equilibrio con l’ambiente circostante. Nel corso del tempo, i confini del parco hanno continuato a espandersi, e ogni nuova espansione è stata accompagnata da altri sfratti. Il fenomeno continua ancora oggi. Le comunità di Kaziranga sanno bene che se quel territorio custodisce così tante specie animali e vegetali è proprio grazie
alla loro sapiente gestione millenaria, ma per il Dipartimento delle Foreste, e per le organizzazioni della conservazione che lo supportano, i popoli indigeni e tribali dello Stato di Assam sono “encroachers”: invasori.

“Il Dipartimento delle Foreste si è divorato la nostra terra ancestrale. Noi ci siamo presi cura degli uccelli e degli animali, ma loro ci stanno cacciando via” si lamenta un uomo Karbi.

Lo sfratto dalle terre ancestrali è solo uno del lungo elenco di abusi commessi contro i popoli tribali nel nome della conservazione.

Nel nome della conservazione
I villaggi dei popoli tribali abbracciano i confini del Parco, ma la linea di demarcazione non è sempre chiara. Non ovunque ci sono recinzioni o segnali, e in ogni caso gli animali che i locali portano a pascolare non sarebbero in grado di leggerli. Eppure, per i popoli tribali conoscere questi confini sarebbe di primaria necessità perché possono determinare anche la linea di confine tra la vita
e la morte.

Gaonbura Kealing aveva 25 anni, era un giovane tribale con gravi difficoltà fisiche e di apprendimento. È stato ucciso a colpi di pistola per essere entrato nel Parco Nazionale di Kaziranga in cerca di una mucca che gli era sfuggita. Il Dipartimento delle Foreste continua a sostenere che fosse un bracconiere.

All’interno del parco i guardaparco godono di poteri straordinari. Sono armati e incoraggiati a sparare a vista contro gli intrusi. Un rapporto del 2014 dell’ex direttore del parco lo esplicita apertamente. Due delle massime utilizzate durante l’addestramento contro il bracconaggio, citano infatti: “Non permettere mai ingressi non autorizzati – uccidere gli indesiderati”. Oltre a questi poteri tipici delle aree di guerra, le guardie forestali godono anche di immunità effettiva da persecuzioni legali (immunity from persecution without prior sanction).

Attorno a Kaziranga è in atto una guerra silenziosa, in cui fattori interni ed esterni si intrecciano per far vincere i soliti vincitori e fare perdere i soliti perdenti: non solo i popoli indigeni ma anche la natura. Ci sono tutti gli ingredienti per innescare un’autentica bomba a orologeria. Kaziranga è infatti la dimora di due terzi della popolazione mondiale di rinoceronti a un solo corno, considerato dall’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN) una specie vulnerabile.

Particolarmente apprezzato per il suo presunto potere curativo o semplicemente per la sua rarità, per 100 grammi del suo corno, Vietnamiti e Cinisensi sono disposti a pagare più di 6000$. A difendere questo prezioso bottino c’è un personale poco addestrato e mal pagato, ma armato e protetto dall’immunità e autorizzato a decidere del diritto di vita e di morte sulla popolazione locale. La conseguenza inevitabile sono le esecuzioni extragiudiziali: per i presunti bracconieri non ci sono arresti né processi, né giudici o giurie, né opportunità di appello. Negli ultimi tre anni, 50 persone sono state uccise estragiudizialmente, e molti erano tribali innocenti.

Nel luglio 2015 un guardaparco ha colpito e reso per sempre invalido un bambino tribale mentre tornava a casa dal negozio di alimentari. Aveva solo sette anni. Suo padre ha trascorso più di 5 mesi in ospedale, mentre la moglie accudiva gli altri bambini rimasti a casa. Per tutto il periodo non ha potuto lavorare. Il risarcimento che il Dipartimento delle foreste doveva erogare alla famiglia non è stato dell’importo promesso. Comunque nulla potrà mai ridare le gambe a suo figlio. Sulla sua faccia stanca si legge solo un senso di impotenza, e tuttavia ha ancora la forza per denunciare quello che succede attorno al parco: “Non riguarda solo mio figlio, prendono dei ragazzi per le strade e li uccidono; il giorno dopo dicono che si trattava di bracconieri”.

Queste gravi violazioni dei diritti umani vengono giustificate dall’urgenza della situazione. “La caccia illegale ai rinoceronti va fermata”, ha detto uno dei responsabili del WWF India (Fondo Mondiale per la Natura) durante un’intervista alla BBC. Il WWF ha fornito addestramento ed equipaggiamento ai guardaparco
di Kaziranga, tra cui esercitazioni di “combattimento e appostamento”. Tuttavia le cifre del fenomeno, per quanto tristi possano essere, non sembrano giustificare misure così estreme. Paradossalmente, in otto anni, tra il 2000 e il 2008, quando i guardaparco non avevano ufficialmente né immunità né ordini di sparare a vista, nel parco sono stati uccisi circa 57 rinoceronti: lo stesso numero di animali uccisi negli ultimi 3 anni, ovvero da quando il numero di persone assassinate a causa di questa pratica è drammaticamente aumentato. Nel solo 2015 sono stati uccise più persone che rinoceronti: 23 sospettati contro 18 animali.

A giustificare questi atti di violenza viene spesso invocata anche la “legittima difesa”. Durante un’intervista a Radio France International, il direttore associato del WWF India ha affermato: “Purtroppo può darsi che alcune persone siano morte, loro dicono. Ma devi anche renderti conto che le guardie forestali e i ranger stanno lavorando in circostanze molto pericolose”.

Secondo molti sostenitori della militarizzazione della conservazione, i cacciatori illegali sarebbero dotati di AK-47, resistenti fucili d’assalto. Le AK-47 non sono armi di grande precisione, e nessun bracconiere le utilizzerebbe mai per cacciare un rinoceronte a distanza. Tuttavia sono armi letali nel conflitto uomo-uomo, e sono legate al terrorismo. Evocare il loro nome, permette di veicolare l’idea che i bracconieri siano collegati a gruppi terroristici locali e internazionali. Tuttavia dalle cifre ufficiali del parco emerge chiaramente che negli ultimi 10 anni, tra gli oltre 542 presunti bracconieri arrestati o uccisi sia stato requisito soltanto un AK-47. Le stesse statistiche ufficiali ci dicono anche che negli ultimi 20 anni, i guardaparco hanno ucciso 106 persone di contro a 1 solo guardaparco ucciso da un bracconiere mentre era in servizio.

Per quanto importante, difficile o pericoloso possa essere il lavoro della guardia forestale, secondo la legge internazionale e le convenzioni che lo stesso governo indiano ha ratificato, esistono diritti umani fondamentali e inderogabili, e quello contro la tortura è uno di questi. Non c’è giustificazione che regga.

“Il dipartimento della foresta mi ha torturato, picchiato, e mi ha dato scosse elettriche sui gomiti, sulle ginocchia e sulle parti intime” mi ha raccontato un uomo picchiato dai funzionari del parco. Credevano fosse un bracconiere, ma poi l’hanno rilasciato. L’uomo ha denunciato il fatto alla polizia, ma nei confronti dei responsabili non è stato avviato nessun procedimento legale.

La politica dello sparare a vista è stata criticata non solo per le sue implicazioni verso i diritti umani, ma anche perché inefficace ai fini della conservazione. Rory Young, esperto e co-fondatore della ONG anti-bracconaggio Chengeta Wildlife, ha dichiarato: “Sparare a vista è stupido. Se avessimo sparato a vista durante l’ultima operazione sotto copertura avremmo semplicemente ucciso qualche bracconiere, nient’altro. Ogni singolo bracconiere costituisce una opportunità di ottenere informazioni per arrivare ad altri bracconieri e risalire nella catena fino ai capibanda.” Infatti, sparare a vista non colpisce i veri bracconieri, che sono criminali collusi con funzionari corrotti. La complicità dei colletti bianchi è un fenomeno ben noto, risalente a più di 150 anni fa, ed è stato confermato anche da un recente rapporto dell’Ufficio delle Nazioni unite contro la Droga e
il Crimine, il “World Wildlife Crime Report: Trafficking in protected species”, secondo il quale in molti parti del mondo, al cuore dei crimini contro la fauna vi sono funzionari corrotti, e non i popoli indigeni. Nello stesso parco di Kaziranga nel 2016 quattro membri del personale del Parco sono stati arrestati perché sospettati di coinvolgimento nel bracconaggio di rinoceronti.

Mentre scorro, scioccata e sgomenta, le pagine del mio quaderno, sempre più simile a un racconto dell’orrore, mi chiedo se colpevolizzando le popolazioni locali e uccidendo degli innocenti con l’accusa di bracconaggio, le guardie forestali non cerchino proprio di confondere le acque per sfuggire agli arresti.

Prendere di mira i popoli indigeni e tribali non solo distoglie l’attenzione dalla lotta ai veri bracconieri ma danneggia anche la conservazione, perché si inimica coloro che dovrebbero essere i migliori alleati delle organizzazioni della conservazione. Lungi
dal distruggere la foresta, i popoli indigeni sanno prendersi cura dell’ambiente meglio di chiunque altro: “Si può dire che siamo stati noi ad avere mantenuto in vita Kaziranga. Se noi non fossimo rimasti nella foresta, non ci sarebbero né il rinoceronte né la tigre. Trattiamo la fauna selvatica come se fossero i nostri animali domestici. Noi crediamo siano i nostri animali, ma il Dipartimento delle Foreste abusa dei nostri diritti, ci dice che siamo bracconieri, che rubiamo i pesci. Se noi avessimo fatto tutte queste cose, la foresta di Kaziranga non sarebbe sopravvissuta.”

All’ombra di questa guerra combattuta nel nome della conservazione, i popoli tribali di Kaziranga cercano di condurre una vita per quanto possibile normale, seppur nella paura e nel silenzio. Nel frattempo, circa 170.000 turisti visitano ogni anno
il parco all’insaputa del suo lato oscuro.

“Ci sono tantissimi resort per turisti in Kaziranga. Il governo permette loro di restare. Noi invece non possiamo nemmeno prendere un ramo secco senza essere accusati o torturati.”

Alcuni fiori profumano solo di notte
Il Parco di Kaziranga e il nostro pianeta hanno bisogno di un modello di conservazione che rispetti i diritti dei popoli indigeni. Per i popoli indigeni e tribali la terra non è un’entità da sfruttare bensì un universo da sostenere e mantenere in equilibrio a cui l’uomo appartiene al pari di qualsiasi altro essere vivente. Difenderla è semplicemente il loro modo di vivere, e non un dovere, perché dal suo stato di salute dipende la loro stessa sopravvivenza e quella delle future generazioni.

Quando cala il sole, il verde accesso del prato si scaglia più che mai contro il torpore grigiastro del Brahmaputra, il fiume-dio delle tribù Mising. È allora che il parco diventa più pericoloso per noi turisti perché, come sostiene l’ex direttore, la notte è il tempo prediletto dai cacciatori illegali. Ma per i popoli tribali, l’oscurità della loro foresta non è un pericolo, bensì una scoperta: “Annusa l’aria”, mi dice un Mising, “lo senti questo odore? Ci sono fiori che profumano solo di notte”. Loro lo sanno, noi no. Per una volta, dovremmo provare ad ascoltarli.

Note:
- Survival International ha lanciato un appello per un nuovo modello di conservazione, che metta al centro i diritti indigeni. Clicca qui e firma subito.
- L’articolo di Fiore Longo è stato pubblicato il 12 maggio 2017 su Micromega.

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