Le origini coloniali della conservazione: il risvolto inquietante dei Parchi Nazionali USA

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Di come l’eugenetica razzista ha influenzato la storia della conservazione. Di Stephen Corry, Ex Direttore generale di Survival International

Essere iconoclasti – ovvero contestare eroi e ideali comuni, e persino demolirli – è molto difficile. Molte persone fondano vita e comportamenti su principi o convinzioni che considerano veri al di là di qualsiasi dubbio. Cambiare l’attuale modello di conservazione non è quindi cosa facile.

Tuttavia, il cambiamento è necessario. I risultati che ha conseguito non alterano il fatto che la conservazione sia radicata su due errori gravi e interconnessi. Il primo è quello di credere di adoperarsi per conservare la cosiddetta wilderness, ovvero aree selvagge modellate unicamente dalla natura. Il secondo è quello di credere in una gerarchia che pone ai vertici alcuni esseri umani, intelligenti e superiori. Molti conservazionisti credono ancora di essere gli unici dotati della perspicacia e delle competenze necessarie per controllare e gestire tali terre selvagge, e che, quindi, chiunque altro dovrebbe andarsene, inclusi coloro che effettivamente le possiedono e le hanno abitate per generazioni.

Queste nozioni sono superate; danneggiano gli uomini e l’ambiente. La seconda, con il suo perpetuare l’accaparramento di terra, viola anche la legge. Per il bene della natura, e di noi stessi, è fondamentale raccontare come queste idee siano cresciute e si siano diffuse. Diversamente non si potrà capire quanto siano sbagliate. Si sta cercando di nascondere il pantano dal quale deriva il movimento della conservazione, per fingere che tutto sia trasparente e alla luce del sole. Ma non lo è.

Alcuni conservazionisti, solitamente quelli ai livelli più bassi dell’ordine gerarchico, hanno l’onestà intellettuale di confrontarsi con la realtà. Dovrebbero prevalere. Con un supporto sufficiente, sarebbero in grado di spronare l’industria dal basso indirizzandola verso un approccio radicalmente differente, con molte più possibilità di salvare l’ambiente e un dispiego di risorse economiche decisamente meno ingente.

Questa rivoluzione iconoclasta è urgente, e non potrebbe verificarsi in un momento migliore: nel 2015 è stato celebrato il 125° anniversario del Parco Nazionale di Yosemite, e nel 2016 il National Park Service degli Stati Uniti ha compiuto un secolo di attività. Questi anniversari hanno un’alta valenza simbolica: i dogmi della conservazione sono radicati nella conquista coloniale e sono inestricabilmente legati al genocidio commesso contro i Nativi Americani. Entrambe queste menzogne – l’esistenza della wilderness e l’inferiorità di alcuni esseri umani – erano estremamente popolari nel 1916, benché i loro semi fossero già stati gettati in precedenza, ovvero quando gli USA cominciarono a inventare quel modello di parco che oggi continua, pericolosamente, a essere esportato in tutto il mondo.

Lo sfratto degli Ahwahneechee da Yosemite

Il movimento della conservazione (e i suoi problemi) sono iniziati realmente con il Yosemite Grant Act del 1854. I leader della conservazione, come Jhon Muir, credevano che i popoli indigeni che abitavano Yosemite da quasi 6000 anni costituissero una dissacrazione e dovessero essere rimossi. Muir li riteneva “pigri” perché le loro tecniche di caccia garantivano loro una vita piacevole, senza troppi sforzi. Questo pregiudizio è tuttora vivo e diffuso. Un ufficiale in India ha dichiarato che i popoli indigeni non vogliono lasciare la foresta perché vi ricavano “cibo e reddito… gratis”, che sono troppo pigri per lavorare e che pertanto devono essere sfrattati.

Gli invasori bianchi consideravano questi territori come selvaggi e incontaminati perché non corrispondevano al loro immaginario industriale europeo di produttività. In realtà, Yosemite fu a lungo modellato dai suoi abitanti attraverso incendi controllati del sottobosco (che hanno dato vita alle sue lussureggianti foreste dai grandi alberi e alla sua ricca biodiversità), piantando alberi da ghiande come alimento di base, e praticando una caccia sostenibile, atta a mantenere le specie in equilibrio.

Nel XIX secolo, i nuovi arrivati non esitarono a inviare l’esercito per pattugliare queste terre selvagge e sbarazzarsi di chiunque si trovasse al loro interno. Uno storico, Jeffrey Lee Rodger, simpatizza con i soldati della cavalleria, ma ammette che le loro “punizioni improvvisate… erano chiaramente illegali e potrebbero esser sfociate nell’uso arbitrario… della forza”. Egli avrebbe potuto paragonare tali “punizioni” con quelle che i conservazionisti sostengono ancora oggi, particolarmente in Africa e in Asia, dove i popoli tribali sono regolarmente cacciati dai parchi e picchiati, o persino torturati, se oppongono resistenza.

I Nativi Americani furono sfrattati da quasi tutti i parchi americani, ma per qualche decennio all’interno di Yosemite fu tollerata la presenza di pochi Ahwahneechee. Venivano costretti a servire i turisti e a mettere in scena umilianti “giornate indiane”. I visitatori volevano vedere gli Indiani dei film, e così gli Ahwahneechee erano costretti a vestirsi e a danzare come i fratelli delle Grandi Pianure. Se non lavoravano nel parco, venivano espulsi – e alla fine se ne andarono o morirono tutti. I loro ultimi villaggi furono ignobilmente e deliberatamente bruciati in una esercitazione antincendio nel 1969.

“Gli © The Newberry Library, Chicago

Come ha dichiarato pubblicamente Luther Orso in Piedi, “Solo per l’uomo bianco la natura era selvaggia… per noi era domestica. La terra era generosa”. I parchi dovevano e dovrebbero ancora preservare questa presunta “wilderness”, ma non ce l’hanno mai fatta. Nel caso di Yosemite sono state costruiti migliaia di chilometri di strade e sentieri, spesso affollati; sono stati abbattuti alberi per creare punti panoramici; l’equilibrio delle specie è stato alterato perché sono stati eliminati animali e predatori umani; sono state introdotte le trote a beneficio dei pescatori; è stato costruito un hotel di lusso; sono state istituite aree dove cibare gli orsi per la gioia dei visitatori, istigando così gli animali a frugare nella spazzatura in cerca di cibo umano; e gli albergatori hanno abbattuto alberi, bruciandoli alle radici, per un secolo intero, spingendosi fino al Glacier Point, così da farli poi cadere da oltre 2000 metri d’altezza giù nella valle (a quasi 50 anni da quando questa pratica è stata vietata, le cicatrici rimangono ancora visibili).

L’antica pratica dei Nativi Americani, che bruciavano il sottobosco stagionalmente in modo controllato, fu proibita. Una delle conseguenze è la devastante facilità con cui si propagano gli incendi oggi in California; sotto il controllo dei Nativi, semplicemente, non sarebbe successo.

Tutto ciò non lo si può definire conservazione dell’ambiente. Al contrario, si trattava di una sua riprogettazione destinata a servire il turismo per profitto. Nonostante questo, e il fatto che il National Park Service abbia subito perdita di biodiversità: e si confronti con il rischio di estinzione per dozzine di specie, molti conservazionisti continuano a credere di saper proteggere l’ambiente meglio dei popoli indigeni che vi vivono, o che vi vivevano.

Razzismo Scientifico nel movimento conservazionista

Gli atteggiamenti storicamente sprezzanti del movimento conservazionista verso i popoli indigeni si sono intrecciati con l’eugenetica e il razzismo scientifico che stavano emergendo proprio quando il Yosemite Grant Act fu approvato. Charles Darwin pubblicò “Le origini delle specie” cinque anni prima dell’approvazione del Grant Act, e il cugino di Darwin, Francis Galton, stava iniziando a sviluppare le sue idee razziste eugenetiche, dichiarando: “Le nazioni deboli del mondo stanno necessariamente cedendo il passo a varietà più nobili di esseri umani”. Tra i fautori dell’eugenetica nel Regno Unito c’erano lo scrittore H.G. Wells e il drammaturgo George Bernard Shaw, che pensavano che coloro che erano geneticamente inferiori, al punto di non poter “giustificare la loro esistenza”, avrebbero dovuto essere uccisi con il gas per compassione. John Maynard Keynes, William Beveridge e Marie Stopes si unirono a questo pensiero, insieme alla maggior parte dell’intellighenzia liberale.

Negli USA, l’eugenetica e la conservazione sono nate insieme. Ricchi cacciatori di trofei, tra cui Teddy Roosevelt e il suo amico Madison Grant, entrambi importanti conservazionisti, erano tra gli entusiasti sostenitori del credo razzista. La priorità iniziale era conservare i branchi che permettevano loro di praticare il proprio sport, e il modo più facile per farlo – così pensavano – era allontanare quei “predatori” che uccidevano la selvaggina per mangiarla (e per la sua pelle) invece che per appenderla alla parete. Ma questi predatori erano principalmente cacciatori umani: i Nativi Americani, e i coloni poveri che cercavano di sbarcare il lunario in un mondo nuovo e sconosciuto.

Allontanare questi cacciatori di sussistenza ebbe l’effetto opposto a quello desiderato. I branchi di alci a Yellowstone, per esempio, crebbero oltre la capacità di sostentamento del territorio (lo stesso sta accadendo ora con gli elefanti, in Botswana). Gli animali deboli, che una volta erano i primi a cadere sotto le frecce dei cacciatori o le zanne dei lupi, iniziarono a raggiungere l’età riproduttiva. I branchi crebbero, ma gli animali si facevano sempre più deboli man mano che la fame cresceva. Vedendo i preziosi trofei sparire a causa della propria incompetenza, l’élite se ne uscì con l’idea della “gestione della selvaggina”, che viene applicata ancora oggi. La chiave è abbattere, mantenendo il branco più piccolo ma più forte.

Rivolsero poi la propria attenzione al “branco” umano, che si stava rapidamente espandendo a causa dell’immigrazione europea. Secondo Galton, classificarono il genere umano per “razze” in ordine gerarchico, e temevano che il paese venisse invaso da quelle che consideravano essere razze inferiori, come i “Mediterranei”, gli “Alpini” e gli Ebrei.

I cultori della caccia grossa si consideravano diversi. Come gli “Ariani” dell’Europa settentrionale, si ritenevano gli autori della civilizzazione, della scienza, della cultura, della religione e della ricchezza autentiche. Temevano che la mescolanza razziale potesse minacciare la loro “razza” e quello che ritenevano essere il suo insostituibile talento. Approvarono leggi per ridurre l’immigrazione verso gli Stati Uniti dai paesi “non-Ariani”, bandirono i matrimoni interrazziali e imposero la segregazione ovunque possibile; e quando riuscivano a individuarli, sterilizzarono con la forza tutti quelli che non corrispondevano al loro modello. Nessuno che avesse problemi fisici, mentali o addirittura sociali, era al sicuro, in particolare i poveri.

Il più importante cacciatore-conservazionista, Madison Grant, era anche il loro principale autore. Fu un sostenitore chiave, il finanziatore o il leader, di circa una dozzina di gruppi di conservazione che esistono ancora oggi, benché il suo nome compaia a malapena nelle loro storie ufficiali. Tra i più importanti c’erano la Save the Redwoods League; la New York Zoological Society (oggi Wildlife Conservation Society, WCS); e la National Parks Association (oggi National Parks Conservation Association).

Il suo libro, “The Passing of the Great Race”, fu pubblicato nell’anno in cui fu fondato il National Park Service. La rivista Science fece una recensione entusiasta del suo “solido valore”. Trent’anni dopo, sarebbe stato citato dai Nazisti che non riuscivano a capire perché fossero sotto processo: stavano – dichiaravano – semplicemente emulando gli Stati Uniti, dove l’eugenetica scientifica era stata usata a lungo per modellare la società. Grant aveva inviato una traduzione del suo libro a Hitler, che lo considerava la sua Bibbia.

Il sostegno diffuso all’eugenetica

Basta scrutare un po’ a fondo il movimento conservazionista degli inizi, per veder emergere chiaro e forte il suo background eugenetico. Alexander Graham Bell (che sostenne falsamente di aver inventato il telefono ed era uno dei fondatori della National Geographic Society), due soci fondatori del Sierra Club, David Starr Jordan (presidente fondatore della Stanford University) e Luther Burbank, erano tutti membri di rilievo del movimento. George Grinnell, finanziatore della Audubon Society (e mentore di Edward Curtis) fu un amico stretto di Madison Grant per quasi cinquant’anni. Il primo direttore del National Park Service, il magnate dell’industria mineraria Stephen Mather, fu sostenuto da Charles Goethe, membro delle Società Audubon e Kenya Wildlife, capo regionale del Sierra Club e sostenitore esplicito delle leggi eugenetiche naziste.

Nel 1937, secondo quanto scritto da Garland E. Allen nel suo saggio del 2012 “Eliminazione selettiva del Branco” (pubblicato nel Journal of the History of Biology), Ghoete scrisse a Otmar Freiherr von Verschuer, direttore di “Igiene razziale” a Francoforte dichiarando “Sento con passione che state guidando in questa direzione tutta l’umanità”. Verschuer fu supervisore e collaboratore di Josef Mengele, tristemente noto per i suoi barbari esperimenti sui bambini ad Auschwitz. Dopo la guerra continuò a distinguersi come professore di genetica a Münster.

Nell’articolo “Patriottismo e standard razziali”, pubblicato in un numero del 1936 di Eugenical News, Goethe scriveva entusiasta: “Ci stiamo muovendo verso l’eliminazione di una umanità indesiderabile come Sambo, il marito di Mandy la ‘lavandaia’”. Nel 1955, nel giorno del suo novantesimo compleanno, Goethe fu nominato “cittadino numero uno” dello stato dal governatore della California. Combatté l’immigrazione dal Messico usando l’argomentazione razzista che i Messicani avessero un quoziente intellettivo basso.

L’eugenetica crebbe all’interno dell’establishment della prima metà del XX secolo e non vacillò seriamente sino al 1945, quando un battaglione americano si imbattè in Buchenwald, poco dopo che i suoi prigionieri lo avevano conquistato sfuggendo alle guardie del campo.

Schizzo © Delarbre Léon

Quando i Nazisti lo costruirono – era il loro secondo campo di concentramento – conservarono intenzionalmente una quercia cresciuta all’interno delle sue mura. Era un gesto simbolico, ma non verso la natura. Sotto i suoi rami, Goethe aveva composto diverse poesie, comprese alcune parti del Faust…

La sconfitta militare del Nazismo svelò la natura dell’eugenetica nazista: un autentico patto faustiano, cioè assurdamente falso e grottescamente violento. Avrebbe dovuto segnare la sua fine. Ma come per molti aspetti di questa storia, la nebbia continua a offuscare il paesaggio: le affiliazioni all’eugenetica vengono continuamente negate o censurate.

Tra i personaggi più acclamati nell’ambito della conservazione post-bellica europea c’erano ex nazisti come il Principe Bernhard, fondatore del WWF (che si unì agli alleati prima della guerra), e Bernhard Grzimek, l’autoproclamato “salvatore del Serengeti”, co-fondatore dell’organizzazione Friends of the Earth Germania, ed ex-direttore della Società Zoologica di Francoforte – uno dei maggiori finanziatori della conservazione in Europa.

Fu proprio lui ad assicurarsi che i Masai e altre tribù locali venissero espulse. Così ha fatto anche Mike Fay della Wildlife Conservation Society, il creatore del Parco Nouabalé-Ndoki in Congo, che ha cacciato i Mbendjele usando il denaro dei contribuenti americani. La Wildlife Conservation Society ha formato le guardie che oggi picchiano i Mbendjele per sospetto bracconaggio. Dato il modo in cui vengono trattati, non è affatto sorprendente che, coloro che prima vivevano sulla e della terra, facciano effettivamente ricorso al bracconaggio se si presenta l’occasione. La conservazione crea i bracconieri.

Quando i leader ambientalisti oggi spingono per frenare l’immigrazione e la crescita demografica, non possono che farci rievocare questo passato violento. Per esempio, davvero David Brower, fondatore sia di Friends of the Earth che dell’Earth Island Institute, ha affermato che avere figli senza autorizzazione dovrebbe essere un crimine – proprio lui che ne ha già quattro?

Pochi ambientalisti protestano per il furto delle terre indigene o sostengono attivamente i diritti di questi popoli. Per esempio, John Burton del World Land Trust, un tempo parte di Friends of the Earth e di Fauna and Flora International, si dichiara apertamente contrario al farlo; tuttavia altri attori importanti, come ad esempio alcuni di Greenpeace, hanno manifestato il proprio supporto ai popoli tribali.

Conoscere la storia delle origini della conservazione è importante perché condiziona ancora oggi l’atteggiamento che molti conservazionisti hanno nei confronti dei popoli indigeni. Non sostengono più, ovviamente, di salvare la propria “razza”, ma sicuramente affermano di salvare il patrimonio mondiale, e generalmente continuano ad avere un atteggiamento arrogante nei confronti di coloro che stanno annientando.

Questi atteggiamenti devono cambiare. Il movimento della conservazione dei giorni nostri, in particolare in Africa e Asia, sembra avere a che fare con l’accaparramento di terre e il profitto più che con qualsiasi altra cosa. Il suo discreto scendere a patti con il taglio del legno e l’industria mineraria danneggia l’ambiente. I popoli indigeni vengono tuttora abusati, addirittura uccisi con l’accusa di fare bracconaggio, quando in realtà stanno solo tentando di sfamare le proprie famiglie, mentre la “conservazione” continua a incoraggiare la caccia ai trofei. I ricchi possono cacciare, i poveri no.

Nonostante sia evidente il contrario, molti manager conservazionisti non riescono ad accettare che i popoli indigeni siano realmente in grado di gestire le proprie terre. Si sbagliano. È una grande truffa, ed è giunto il momento di smascherarla e fermarla.

Altri conservazionisti sono desiderosi di fare meglio. Meritano di sapere di poter contare su un enorme sostegno pubblico, che preme per un cambiamento sostanziale nel movimento conservazionista, perché a trarne vantaggio siano, finalmente, i popoli indigeni, la natura e noi tutti.

Stephen Corry è l’ex direttore di Survival International, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni. L’organizzazione ha quasi 50 anni di esperienza nella lotta al furto di terre indigene. Lavora per cambiare l’approccio alla conservazione e chiede all’opinione pubblica di unirsi alla sua campagna per un nuovo modello di protezione della natura che metta al centro i popoli indigeni e che rispetti i loro diritti.

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