“La caduta del cielo: parole di uno sciamano yanomami”

© Pablo Levinas/Survival

Stephen Corry recensisce “La caduta del cielo: parole di uno sciamano yanomami” di Davi Kopenawa e Bruce Albert

“La caduta del cielo”, il primo libro mai scritto da uno Yanomami, è la testimonianza dello sciamanesimo amazzonico più autentica che sia mai stata registrata. È la cosa che più si avvicina al sedersi intorno al fuoco in una casa comune degli Yanomami per ascoltare le parole di uno sciamano al calar della sera, quando l’atmosfera si tinge di mistero e di magia.

A dargli forma è stato l’antropologo francese Bruce Albert, che nel corso di decenni ha registrato decine di ore di conversazione con Davi Yanomami Kopenawa. Ha organizzato e trascritto i racconti orali, li ha editati insieme a Davi man mano che lui faceva correzioni, e poi si è dedicato personalmente alla traduzione, direttamente dallo yanomami. Alla fine vi ha aggiunto glossari e note per spiegare il suo ruolo e fornire una grande quantità di informazioni di base. Un impressionante tributo alla collaborazione, al lavoro e all’amicizia di un’intera vita.

“La caduta del cielo” – un racconto originale che non si è ispirato a niente e a nessun altro – è destinato a diventare un’opera fondamentale per l’antropologia, e uno dei libri più importanti del nostro tempo.

È diviso in capitoli tanto ricchi da renderlo quasi quattro volumi in uno, e nel primo, dedicato alla cosmologia yanomami, Davi ci rivela una visione del mondo complessa tanto quanto quella delle più grandi religioni. Ci fa partecipi di una visione sfaccettata della realtà che ricorda vagamente i trittici di Hieronymus Bosch, in cui convivono bellezza e amore, ma anche smembramenti, “cannibalismo”, morte e distruzione.

L’universo yanomami è multiforme e multistrato, un luogo in continua trasformazione, pieno di forze nascoste, utili, dispettose o assassine, che si spostano e cambiano in base all’umore o a seconda di come vengono trattate. Sebbene imprevedibili, si attengono a certe convenzioni costringendoci a riflettere sull’ipocrisia della nostra società. “Molto tempo fa, gli anziani dei Bianchi hanno disegnato quelle che chiamano leggi su pelli di carta, ma per loro sono solo bugie!” racconta Davi. “A loro interessano solo le parole delle merci.”

Lo sciamano dotato e ben addestrato che “ingerisce” il tabacco da fiuto yakoana (che in realtà viene soffiato nelle sue narici), acquisisce la capacità di entrare in questo cosmo occulto. Diventa non solo consapevole delle sue forze, benevole o malefiche, ma può – anzi deve! – anche arruolarle per cercare di difendere la sua comunità. L’universo nascosto degli xapiri e di molti altri “spiriti” richiede infatti un intervento costante ai fini di mantenere l’equilibrio: lo sciamano non ha altra scelta che lavorare senza sosta per rendere la vita sopportabile, non solo per il suo popolo ma – sorprendentemente – per tutti, ovunque. Come dice Davi, “Noi sciamani diciamo semplicemente che stiamo proteggendo la natura nel suo insieme. Difendiamo gli alberi, le colline, le montagne e i fiumi della foresta; il suo pesce, la selvaggina, gli spiriti e gli abitanti umani. Difendiamo persino la terra dei Bianchi al di là della foresta, e tutti coloro che vi vivono”.

Davi è un viaggiatore occasionale, e riluttante; è anche un portavoce e un attivista per i diritti indigeni oggi riconosciuto a livello internazionale, che ha già svolto un ruolo chiave nel salvare il suo popolo. Tuttavia, prima di tutto è un figlio della foresta pluviale che ha visto parte del suo popolo morire di epidemie importate da agenti governativi e missionari per poi intraprendere, in tutta risposta, il suo lungo apprendistato sciamanico. A differenza di molti attivisti indigeni contemporanei, non è mai andato a scuola e ha sempre vissuto nella foresta. Ha circa sessantadue anni (non si conosce la sua età esatta) e ha visitato spesso tribù diverse dalla sua.

Durante i viaggi all’estero, Davi non scopre mai molto di nuovo: quei luoghi, o i loro “riflessi”, li ha già visti nelle sue visioni. Ma non si tratta di arroganza e continua a rimproverarsi per la propria relativa ignoranza e superficialità rispetto ai grandi sciamani di un tempo. Tuttavia, lui non crede che noi sappiamo di più, e di certo non tanto quanto noi pensiamo di sapere.

Nella parte più autobiografica del libro, il suo percorso personale si lega inestricabilmente con il destino collettivo del suo popolo e con la nascita della storica campagna in difesa degli Yanomami promossa dalla Commissione Pro Yanomami (fondata nel 1978 dallo stesso Albert, dalla fotografa brasiliana Claudia Andujar e dal missionario laico italiano Carlo Zacquini), e poi lanciata con successo sul palcoscenico mondiale da Survival International, il movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni. Le violenze e i massacri descritti nel libro sono solo un’eco contemporanea di una litania di genocidi che gli Indiani di tutte le Americhe hanno dovuto affrontare negli ultimi secoli, e che continuano ancora oggi. In questo senso, quelli di Davi sono certamente i racconti più dettagliati che siano mai stati registrati dalla parte delle vittime: un’accusa straziante sul prezzo reale delle risorse sottratte alle terre indigene, quello che non viene mai pagato da coloro che ne traggono profitto.

Ma le storie che Davi Kopenawa ha da raccontare sono moltissime e “La caduta del cielo” ci regala anche una serie straordinaria di saggi e visioni sia sulla vita degli Yanomami sia sulla nostra prendendosi una rivincita su chi (come me) cerca da sempre di descrivere i popoli indigeni. Una di queste storie è – per dirla con un eufemismo – che gli Yanomami dell’Amazzonia non sono impressionati dalla nostra società. Il modo in cui gli Yanomami guardano al mondo non potrebbe essere più diverso dal nostro, e vogliono mantenerlo tale, perlomeno alcuni. Uno smacco alla convinzione diffusa e marcatamente adolescenziale dell’Occidente sulla propria presunta superiorità culturale, materiale e civile.

I capitoli che riguardano la caccia e la guerra sono fonte inesauribile di ispirazione e riflessione sia sulle società tribali sia su ciò che noi pensiamo di esse. Altri ci richiamano alla nostra comune umanità, a quella “stessa piega che tutti abbiamo dietro al ginocchio, per poter camminare”. Ma non si deve cadere nell’errore di considerare “La caduta del cielo” come una semplice diatriba contro i “Bianchi”. La visione del mondo yanomami è diametralmente opposta a quella su cui si reggono il commercio e il profitto, ma se Davi fa lo sforzo di viaggiare per parlare con la “gente della merce”, è perché vuole che sappiamo che stiamo distruggendo il mondo con la nostra insaziabile fame di beni – e vuole che ci fermiamo.

La battaglia comune è impegnativa. È tra coloro che sfruttano l’idea dello “sviluppo” per aumentare la propria ricchezza a breve termine con un costo a lungo termine che ricade sugli altri, e coloro che anelano a che i principi sui diritti umani si tramutino in fatti concreti nella convinzione che solo così si possa avere un autentico progresso. Tra questi ultimi si contano tutti coloro che credono che la giustizia non sia semplicemente un’opzione, ma sia vitale per salvare il mondo. Il libro di Davi è uno strumento inestimabile in questa lotta eterna; ma soprattutto è una prova scottante dell’immensa varietà e bellezza del genio umano.

Nel nostro giardino planetario stanno ancora sbocciando molti fiori, molti modi diversi di guardare al mondo. Vogliamo davvero falciarli tutti tranne i nostri? Non permetteremo a nessun altro di seminarne di nuovi – e tutto questo, solo per lasciare che gli avvoltoi ingrassino con le sue spoglie?

Oltre che una tragedia inconcepibile, significherebbe venir meno al nostro dovere verso le future generazioni. Davi Kopenawa pensa che se distruggeremo gli Yanomami, distruggeremo anche noi stessi. Potrebbe avere ragione. Per i lettori che riescono a sopportare di mettere in discussione stereotipi e pregiudizi, il messaggio di Davi merita di essere ascoltato.

© Survival International
(traduzione di Francesca Casella)

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