Survival si appella ai media: 'Smettete di chiamarli primitivi!'

18 marzo 2009

Uomo Asmat, Papua Occidentale. © Jeanne Herbert/Survival

Questa pagina è stata creata nel 2009 e potrebbe contenere un linguaggio ormai obsoleto.

Quando si parla dei popoli indigeni, spesso giornalisti ed editori utilizzano parole come “popoli primitivi” o “uomini dell’età della pietra”. In occasione della Giornata mondiale dell’ONU per l’eliminazione della Discriminazione Razziale (21 marzo), Survival denuncia gli effetti negativi che l’utilizzo di queste definizioni razziste, anche se inconsapevoli, hanno sulla lotta per la difesa dei diritti dei popoli indigeni e tribali.

Molto spesso, per descrivere i popoli indigeni vengono utilizzati termini come “primitivi” o “uomini dell’età della pietra”: parole che rafforzano la falsa idea che questi popoli siano rimasti immutati per generazioni. Questa percezione, che risale all’epoca coloniale, è non solo scientificamente sbagliata ma è anche pericolosa perché alimenta pregiudizi utilizzati ancora oggi per legittimare la violazione dei loro diritti.

“In realtà”, commenta Francesca Casella, direttrice di Survival Italia, “tutte le società umane, sebbene in modi differenti, evolvono nel tempo, adattandosi costantemente a un ambiente in perenne trasformazione: così è anche per i popoli indigeni, che non sono meno moderni o contemporanei di quanto lo siamo noi. Essi semplicemente hanno stili di vita ‘diversi’ dal nostro, ma altrettanto sofisticati”.

“Riferirsi al mondo dei popoli indigeni come al ‘paleolitico’, continua la denuncia di Survival, “significa sostenere, anche inconsapevolmente, che le loro società non siano in alcun modo evolute (al contrario delle nostre) e che abbiano pertanto bisogno di aiuto per ‘svilupparsi’ e ‘civilizzarsi’”.

Sfruttando il falso presupposto che i popoli indigeni siano “arretrati”, spesso, governi e multinazionali costringono i popoli indigeni a trasferirsi, a sedentarizzarsi o a cambiare vita “per il loro bene”, per “aiutarli a stare al passo” col resto del mondo. I veri obiettivi di queste operazioni sono in realtà lo sgombero dei loro territori e il libero sfruttamento delle loro risorse.

“Invariabilmente”, continua Francesca Casella”, gli effetti di questi cambiamenti forzati si rivelano sempre catastrofici per i popoli indigeni del mondo: povertà, alcolismo, prostituzione, morte e malattia”.

In Botswana, il governo ha sfrattato con la forza i Boscimani Gana e Gwi dalle loro terre col pretesto di portare loro lo “sviluppo”. Ma appena dopo i trasferimenti, ha rilasciato alle compagnie diamantifere oltre 100 concessioni di esplorazione minerarie nelle loro terre. E mentre nei campi di reinsediamento i Boscimani cominciavano a perdere la salute, l’indipendenza e anche la vita, l’ex presidente Festus Mogae, responsabile degli sfratti, commentava: “Come può una creatura dell’Età della pietra continuare a vivere nell’era dei computer? Se i Boscimani vogliono sopravvivere, devono cambiare, altrimenti si estingueranno come il Dodo.” Oggi, a due anni di distanza dal processo che ha riconosciuto ai Boscimani il diritto di tornare a vivere nel Kalahari, il governo continua a negare loro il diritto all’acqua e alla caccia di sussistenza.

Nelle Isole Andamane, Survival ha fermato i piani di sedentarizzazione forzata dei Jarawa, entrati in contatto con il mondo esterno solo dieci anni fa. Analoghi piani promossi dal governo si erano già rivelati fatali per altre tribù delle Isole.

E pochi giorni fa, i popoli indigeni del Papua Occidentale hanno aspramente criticato le dichiarazioni dell’ex presentatore della BBC Michael Buerk per averli definiti “primitivi” e averli accusati di uccidere gli stranieri. “Le persone uccise a Papua sono in realtà proprio i Papuasi” ha dichiarato un portavoce di Elsham, la principale organizzazione per la difesa dei diritti umani in Papua, “e ciò avviene per mano dell’esercito e della polizia indonesiani. In totale, sono stati uccisi almeno 100.000 indigeni. Sarebbe bene che i giornalisti si occupassero di questo invece di rigurgitare stereotipi razzisti.”

“Le foto dei popoli indigeni contemporanei” spiega Francesca Casella di Survival, “vengono utilizzate anche nei libri scolastici per descrivere la vita dei popoli preistorici. E, talvolta, nei media di tutto il mondo vengono riprese false accuse di cannibalismo o infanticidio mosse verso i popoli indigeni da fonti anonime, tendenziose o inattendibili volte spesso solo a screditare e minare le loro battaglie per i propri diritti."

La campagna di Survival contro il razzismo nei media (Il razzismo uccide i popoli indigeni – mettiamocelo bene in testa!) ha già raccolto grandi consensi all’estero. È di pochi giorni fa, l’adesione formale dei grandi quotidiani britannici The Guardian e The Observer che, alla voce “primitivo” della loro Style Guide scrivono: “Non utilizzare per descrivere i popoli indigeni” dettagliando le ragioni della raccomandazione. Altre adesioni sono giunte dal corrisponde agli esteri della BBC John Simpson e Tim Butcher del Sunday Times, nonché il famoso antropologo Daniel Everett.

“I popoli indigeni hanno diritto alle loro terre e al rispetto delle leggi” conclude Francesca Casella di Survival. “La loro distruzione non è un processo storico inevitabile. Come la schiavitù, si tratta solo di un crimine che può essere fermato. Smettere di definirli ‘primitivi’ e riconoscerli come società vitali e nostre contemporanee significa compiere un primo ma fondamentale passo verso la giustizia. A editori e giornalisti va poi un ulteriore compito: quello di mettere al bando anche i titoli sensazionalisti e le cornici esotiche in cui i drammi di questi popoli vengono troppo spesso confinati distogliendo l’attenzione dalla gravità delle vere tragedie che li affliggono”.

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Francesca Casella – 02 8900671 – [email protected]
Oppure Miriam Ross: Tel 0044 207 6878734
E-mail: [email protected]

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